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Decimo dono: la preghiera da egoisticale a sacrificale.
Di Gesù ne conosciamo una sola: quella del Getsemani:
‘Tutto puoi: se vuoi fa lontano il mio calice’. Per tre volte.
Poiché si trova a ridosso della sua passione, in quel calice
ve l’abbiamo collocata. La triplice preghiera l’abbiamo
intesa come triplice fuga davanti alla morte.
Spiegazione egoisticale.

Pneumatica magia quella del visuato Paterno che tocca il
vecchio fideato e tutto lo rinnova.
Tocca la preghiera del dire egoisticale ed ecco uscir fuori
la preghiera del fare sacrificale.
Dirmi di no a tutto il piacerale del vivere, delle cose e
delle persone.
Lasciarmi sacrificare dai fratelli sacrificatori, lasciarmi
sacrificare da una intera età sacrificale e dal suo finale:
con devoto silenzioso amore sacrificale: tutto questo lo
chiamo ed è preghiera del fare sacrificale.
È la preghiera che mi scioglie la morte dell’amore, e quindi
mi assolve. È la preghiera che mi salva dalla morte eterna
dell’amore. A questa preghiera si addice quel detto:
‘Chi prega si salva, chi non prega si danna’.
E la preghiera del dire, allora, che fine fa?
1) Quella del dire egoisticale l’ho sicuramente fatta stramazzare
a terra. Non la riprendete, non la fate rivivere
perché non ha più nessun motivo per rientrare nella
nostra vita. Ci ha sempre fatto un gran male distogliendoci
dal nostro sacrificale. È la preghiera della nostra
egoisticità.
2) Non ho però eliminato la preghiera del dire sacrificale.
E come avrei potuto farlo dal momento che quella è
l’unica preghiera che conosciamo di Gesù? Ce l’hanno
ripetuta tre evangelisti: Matteo, Marco e Luca. È la preghiera
della sua ora: dell’ora sacrificale. Ha avuto il
suo svolgimento nell’orto del Getsemani nella immediatezza
della sua passione. Gesù viene assalito, viene
ghermito, viene schiacciato da una tristezza, da una
angoscia, da uno spasimo tale da sentirsi morire.
Prima di volgersi in solitudine invita i suoi a vegliare
insieme con Lui, poi eccolo in solitudine a pregare. Parla
col Padre suo: ne afferma la sua Onnipotenza: ‘Tutto è
possibile’. Poi si appella alla sua volontà: ‘Se vuoi allontana
da me questo calice, però non sia fatta la mia, ma la
tua volontà’. Il Padre comunica col Figlio e gli fa giungere
immediata risposta risolutiva. La cosa che mi domandi
non è possibile, occorre proprio che il calice tu lo beva. E
il Figlio prontamente lo inserisce nella sua seconda preghiera:
‘Padre mio, se questo calice non può passare senza
che io lo beva, si faccia la tua volontà’. Altrettanto fa nella
sua terza preghiera. La sua è vera preghiera. È preghiera
del dire; e poiché ha un solo contenuto: parla del calice
sacrificale, io la chiamo preghiera del dire sacrificale.
Tutta la sua preghiera si concentra sul calice che è in arrivo:
questo calice. Senza molta fatica noi Chiesa abbiamo
dato a quel calice una facile identificazione: è il calice
della sua imminente passione, il calice del suo sacrificale
fisico. Quel calice gli fa paura, ne sente spavento, orrore,
ripugnanza totale e ne domanda la liberazione. La domanda
per tre volte e la sua domanda si accompagna a un triplice
tentativo di fuga. Noi abbiamo stigmatizzato quel
gesto con una espressione un po’ banale: ‘Anche Gesù ha
fatto tre passi indietro davanti alla morte’. La nostra interpretazione
ha un sapore marcatamente egoisticale: per
giustificare e umanizzare e naturalizzare la nostra fuga
davanti alla morte l’abbiamo affermata pure in Gesù. Se
Lui fa tre passi indietro, non sbagliamo neppure noi a fare
sei, o dodici, o ventiquattro… Solamente che in noi i passi
indietro sono prodotto della nostra egoisticità, in Lui non
è possibile: ha con sé solo amore sacrificale. Doloroso
esempio di egoisticizzazione ecclesiale.

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